Call for action in Italian by Sbilanciamoci – accessible here
Now more than ever, in the face of Covid, global trade must go back to a strategy that focuses in its political agenda (be it international, European or national) on social justice, i. e the possibility to work and sustain ourselves with dignity, as well as environmental justice, i. e the possibility to preserve the future of life on this planet.
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“Coronavirus shock: storia di un’altra crisi globale annunciata”[1]. Così l’Unctad, agenzia delle Nazioni Unite che monitora commercio e sviluppo, bolla la spirale in cui sta scivolando l’economia globale dopo la diffusione della pandemia Covid-19. E il commercio internazionale ne è un potente acceleratore.
È dal 2018 che Unctad avverte che più di qualcosa, nel modello di “iperglobalizzazione” improntato alla deregulation commerciale e finanziaria, non va. Nel rapporto annuale 2018 intitolato “The free trade delusion”[2], la disillusione del libero commercio, l’agenzia avvertiva – con le parole del direttore generale Mukhisa Kituyi – che l’economia mondiale era di nuovo sotto stress, anzi non si era mai ripresa, e che le recenti guerre commerciali a colpi di dazi non erano la causa, ma solo un sintomo della crisi: “dietro queste minacce alla stabilità globale c’è un fallimento più ampio: l’incapacità di far fronte sin dal 2008 alle disuguaglianze e agli squilibri del nostro mondo iperglobalizzato”, spiegava Kituyi.
Rispetto al commercio, il direttore generale avvertiva ancora: “lo scenario globale continua a essere dominato dalle grandi multinazionali grazie al controllo delle catene globali di valore tanto che, in media, l’1% delle maggiori imprese esportatrici di un Paese realizza oltre la metà delle sue esportazioni complessive (56%)”[3].
Il rapporto mostrava come la relazione fra crescita degli scambi e crescita economica fosse divenuta più flebile che in passato e come l’aumento nei volumi di scambi internazionali avesse generato disuguaglianze, visti i benefici di cui hanno goduto le principali imprese derivanti da una maggiore concentrazione di mercato e dal controllo di beni immateriali.
Ultimo punto, rilevante per la crisi odierna: il rapporto documentava un declino generale – con la Cina come unica eccezione – nella quota di valore aggiunto derivante da attività manifatturiere, e un progressivo incremento del valore aggiunto attribuibile ad attività di pre- e post-produzione che avevano avuto un effetto marcato sulla distribuzione del reddito in molti paesi. “Le aziende superstar sono un fenomeno globale, e le loro strategie di rendita vanno ben oltre i confini nazionali”, spiegava Richard Kozul-Wright.
Con una chiarezza abbastanza allarmante, il rapporto concludeva che l’iperglobalizzazione non aveva portato agli sperati benefici diffusi e che “il dogma del libero scambio era stato a lungo la scusa per ridurre lo spazio di manovra per i paesi in via di sviluppo e diminuire le protezioni per i lavoratori e le piccole imprese, a tutto vantaggio delle rendite delle grandi imprese multinazionali”.
In più, le guerre commerciali incombenti erano “solo il sintomo di un sistema economico (e di una architettura multilaterale) in degrado”, mentre il male di fondo andava ricercato “nel circolo vizioso esistente fra politiche aziendali volte alla cattura delle autorità regolamentatrici e una crescente disuguaglianza, una spirale nella quale gli utili sono utilizzati per ottenere potere politico e il potere politico è utilizzato a sua volta per moltiplicare gli utili”.
L’Unctad sollecitava i decisori politici a intervenire urgentemente per costruire un nuovo modello di cooperazione internazionale imperniato su tre cardini: vincolare le negoziazioni commerciali a un impegno per la piena occupazione e l’aumento salariale; regolare i comportamenti aziendali predatori; mantenere uno spazio di manovra sufficiente a garantire che i Paesi potessero gestire la loro integrazione in linea con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, auspicando la condivisione di un Green new deal che rispondesse con maggiore efficacia ed equità alla sfida posta dai cambiamenti climatici: un fattore di grave instabilità per la produzione, la logistica, le risorse, i redditi, i consumi, per tacere della geopolitica.